Blog Biblioteca Marradi 93-Riaperta la Villa di Castel Pulci-«Signor Campana mi permetta di presentarmi», biografia di Carlo Pariani medico psichiatra

La Villa di Castel Pulci si trova nel comune di Scandicci, in località Viottolone, il cui nome deriva proprio dal lungo viale di cipressi, realizzato a cavallo fra XVI e XVII secolo, che consente l’accesso alla villa.
La Villa, originariamente un castello dei conti Cadolingi sorto in epoca medioevale, domina tutta la vallata dell’Arno, fra Scandicci e Lastra a Signa.

Le sue alterne vicende l’hanno portata a passare di proprietà più volte ed ogni volta a subire ampliamenti, restauri, ristrutturazioni, fino a quando, alla fine del diciassettesimo secolo, sotto la famiglia Riccardi, ha raggiunto l’aspetto e le dimensioni attuali.
Nel 1854, con l’estinzione della famiglia Riccardi, la villa di Castel Pulci, ormai priva di ogni arredo ed ornamento, divenne proprietà del demanio pubblico.
La struttura fu poi data in affitto all’Istituto fiorentino della Santissima Annunziata, che vista la particolare configurazione del luogo, assai salutare e ricco di acque, la utilizzò per risolvere i problemi di spazio dell’Ospedale di Santa Maria Nuova.
Castel Pulci, successivamente, ospitò un ospedale psichiatrico fino al 1973, e uno dei suoi ospiti è stato il poeta Dino Campana, ricoverato in tale struttura per 14 anni, dal 1918 fino alla morte, avvenuta nel 1932.
Oggi, dopo quasi quaranta anni di chiusura e di abbandono, e le varie vicende che si sono susseguite per individuarne una nuova destinazione d’uso, la Villa di Castel Pulci è stata completamente restaurata e destinata a polo formativo.
Grazie ad un accordo sottoscritto tra il Ministero di Grazia e Giustizia, Regione Toscana, Provincia di Firenze, Comune di Firenze e Comune di Scandicci sarà, dal prossimo anno accademico che si inaugura a ottobre, sede della Scuola Superiore della Magistratura.
Prima dell’inaugurazione in questa sua nuova veste, Villa Castel Pulci è stata aperta in via straordinaria al pubblico, il 15 e 16 settembre.

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E’ un lunedì mattina, di una tipica giornata di novembre, con un cielo coperto che minaccia pioggia, cosa che succederà di lì a poco e per tutto il giorno seguente tanto da far temere lo straripamento dell’Arno, quando un bell’uomo di cinquant’anni, con gli occhi celesti della madre sale per la collina alla sinistra del torrente Vingone per entrare a Castel Pulci.
Il suo camminare è pensoso, leggermente curvo.
I guardiani della succursale del Manicomio provinciale Chiarugi di Firenze non hanno difficoltà a farlo entrare, lo conoscono bene e l’hanno già visto altre volte; lo salutano con deferenza: è un primario. Carlo Pariani proprio quel giorno compie cinquant’anni.
E’ nato lontano da dove si trova ora, nel territorio di Arizzano Inferiore, che poi confluirà nel Comune di Verbania, circondario di Pallanza, provincia di Novara, l’8 novembre 1876 da Federico ed Elisa Boletti, sposati il 24 aprile del 1871. Ripensa a cinque anni prima, a quando avevano festeggiato le nozze d’oro dei genitori facendo stampare in litografia l’albero genealogico della famiglia. Una famiglia di alta vecchia solida onesta borghesia piemontese, di industriali con un importante stabilimento di filatura e torcitura di cotone a Gravellona Toce presso Stresa, mentre la direzione e l’amministrazione erano a Palazzo Guidotti-Pariani a Intra. A Gravellona Toce avevano anche una palazzina di caccia tutta affrescata. I Pariani erano grandi amici del generale Cadorna. Il Carlo Pariani che entra a Castel Pulci non ha molti amici, i suoi affetti sono altrove, sul lago Maggiore, tra Intra e Stresa e a Milano. Là vivono anche i suoi fratelli: Matilde, Alfredo l’ingegnere, il preferito dai genitori. estroverso e anche un po’ spaccone. Ma Carlo ama soprattutto i due fratelli più piccoli: Giovanni e Enrico. Il dolce fratello Giovanni è da poco morto a 42 anni.
A lui era toccato entrare nella ditta paterna. L’aveva sentito come un dovere famigliare e civile, ma quando poteva scappava e allora viaggiava in India e Persia. Era la sua risorsa, il suo sfogo da quel tran tran non fatto per lui. Alla sua morte, era toccato all’altro fratello amatissimo, il «buono e valente Enrico, il più piccolo, entrare in ditta. Con lui Carlo, d’estate, di ritorno nei luoghi natii, amava fare viaggi nei dintorni fin verso il Sempione. Un altro fratello, Donato, era morto in tenera età. Carlo la sua via l’aveva potuta scegliere. Il primario che varca la soglia di Castel Pulci l’8 novembre del 1926 è una persona modesta e onesta, introversa, malinconica, anche un po’ pessimista, gli piace il suo lavoro e questo lo fa soffrire, soffre a contatto con quelle centinaia di persone rinchiuse, anche se cerca di mantenere un distacco professionale nell’indagarne le varie storie.
Ama l’arte e la letteratura, ama sprofondarsi nei suoi libri, Virgilio è il suo poeta, sa a memoria Dante, annota fittamente Manzoni. Ama la Toscana e Firenze, è innamorato della lingua toscana, delle espressioni che usano tante umili persone finite là dentro. La sua passione è l’uomo, la sua psiche, è portato all’introspezione. Per questo si è indirizzato verso la psichiatria. Nel 1898 lo troviamo iscritto al quarto anno della Sezione di Medicina e Chirurgia del Regio Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento in Firenze (solo più tardi si chiamerà Università). La sede è nell’Arcispedale di Santa Maria Nuova, Da pochi anni a Firenze era stato costruito il nuovo Manicomio di San Salvi affiancato dalla Clinica delle malattie nervose e mentali, destinati a diventare un centro di primo piano all’interno dell’alienistica italiana nei primi decenni del ventesimo secolo, tanto da essere visitato da Kraepelin nell’estate del 1900. Il suo professore di clinica psichiatrica è Eugenio Tanzi, direttore della Clinica e soprintendente del Manicomio di San Salvi, nonché direttore della Rivista di patologia nervosa e mentale da lui fondata nel 1896 assieme ad Augusto Tamburini ed Enrico Morselli.
Il triestino Tanzi era riapprodato a Firenze da poco, dopo essere stato nel 1883 assistente volontario al Frenocomio di San Lazzaro di Reggio Emilia, allora il più vivo centro di studi psichiatrici, poi a Genova, a Torino come assistente di Morselli, di nuovo a Genova, Firenze, Cagliari, Palermo, Modena, ancora a Reggio Emilia. A Firenze era ritornato nel giugno del 1895 per prendere il posto di Augusto Tamburini. Toccherà a lui svolgere la prolusione inaugurale dell’anno accademico 1896-97 su «I limiti della psicologia». Nel 1904 assieme a Lugaro pubblicherà la prima edizione dell’importante «Trattato delle malattie mentali». Quando arriva Pariani gli studenti di medicina divisi nei sei anni di corso sono 248, più i 42 del corso di perfezionamento. Gli iscritti del quarto anno sono 44 e come compagno trova quel Cipriano Giachetti, che poi si darà al giornalismo con lo pseudonimo di Cip. Ricorderà una sua opera a proposito di Campana. Studente, incomincia a frequentare la Clinica psichiatrica di San Salvi, che era anche reparto di osservazione del Manicomio centrale.
Il corso di clinica psichiatrica di Tanzi è obbligatorio per gli studenti del quinto anno. Tanzi prende argomento dai casi che si presentano nella Clinica, in modo che gli studenti possano avere un saggio completo delle diverse malattie nervose e mentali. Si laurea nel luglio 1901 con una tesi di psichiatria sul fenomeno di Babinski nelle malattie mentali. Dopo il rinvio per motivi di studio, arriva l’ora del servizio militare. Si presenta il I° dicembre 1901 alla 9a Compagnia di sanità. Il 31 maggio del 1902 diventa caporale, finisce con il grado di sergente il 30 novembre dello stesso anno. Rientra subito a San Salvi come volontario fuori ruolo e consegue con esame il perfezionamento in psichiatria. Dal 1° novembre 1901 al 31 agosto 1906 è secondo e poi primo assistente volontario di ruolo nel Reparto Osservazione con molte guardie e pratica ospitaliera di grande importanza e responsabilità — così ricorderà quel periodo — rimanendo sempre a carico della famiglia, unica concessione da parte della Provincia una camera illuminata e riscaldata e la veste di servizio. Per quattro mesi (1° luglio-5 novembre 1904) è alle dipendenze della Direzione del Manicomio come medico dei Pensionarî, per effetto della temporanea soppressione del posto di secondo assistente causata dalla nuova convenzione del giugno 1904 tra Provincia e Istituto di studi superiori. A Firenze abita in una pensioncina.

Mentre entra a Castel Pulci gli viene in mente quella signora giovane e bella, anche lei pensionante, che un giorno gli ha dato la mano: «Che mani calde che ha», e lei, avvicinandosi con fare invitante: «Ho tutto caldo, anche il cuore»; ma lui si ritrasse. Che stupido! Ricorderà questo episodio alla giovane nipote Elena con nostalgia e rammarico: «I libri rendono infelici, perdi tutto, mi hanno fatto soffrire»; e per distoglierla dai libri la porta spesso al cinema, a vedere i film con Greta Garbo, un’altra sua passione. Scrive per la rivista del Tanzi. Nel numero del 1904 pubblica l’articolo «Sul contegno delle cellule nervose del simpatico, dei gangli plessiformi e dei nuclei centrali del vago nella pneumonite sperimentale»; nel luglio del 1905 pubblica «Ricerche intorno alla struttura fibrillare della cellula nervosa in condizioni normali e in seguito a lesioni di nervi»; nel numero di novembre dello stesso anno è la volta di «Il tetano faradico in alcune malattie mentali»; nel marzo del 1906 «Un caso di glioma cerebrale con morte improvvisa». Il 1° settembre del I906 passa dalla Clinica psichiatrica al Manicomio centrale come assistente straordinario, il 6 dicembre il Consiglio Provinciale, da cui dipendeva il Manicomio, lo nomina assistente effettivo. Diventerà primario il 14 luglio 1913. Nell’aprile del 1907, sempre sulla Rivista di patologia nervosa e mentale pubblica il «Saggio sopra le modificazioni dell’arte nella pazzia».
L’articolo è firmato Carlo Pariani assistente e si fa riferimento a giornalieri rilievi personali per studiare il caso descritto, quello di uno scultore massese, compiuti tra il 4 luglio 1905 e la fine del 1906. Nel chiudere questo saggio, illustrato da numerose riproduzioni di opere, ricorda il Tasso, Poe, Rousseau, Maupassant, Nietzsche, Donizetti, Schumann, Sacconi «strappato al monumento che ne congiunge il nome ai fasti della patria», Severino Ferrari «tolto alle lettere» e Vincenzo Gemito, «Maestro grande, fiore spontaneo di ellenica grazia, ora privo della sua bellezza consolatrice». Nel febbraio 1910 è la volta di «Ricerche sulla rigenerazione dei nervi»; ma è il rapporto arte-pazzia quello che oramai lo affascina, che sintetizza i suoi interessi e amori. Nell’aprile del 1913 pubblica «Nuove ricerche sui rapporti dell’arte e della pazzia», centrato sulla figura di Pio Galeffi, chiuso in manicomio da oltre quarant’anni. Anche questo articolo è illustrato da numerose riproduzioni di opere. La guerra interrompe le sue ricerche. Il 24 maggio 1915 è richiamato alle armi e raggiunge l’8a Compagnia di Sanità. Con il grado di tenente medico di complemento si presenti alla Direzione di Sanità di Milano dove prende servizio il 21 giugno all’Ospedale militare di Sant’Ambrogio.
E’ qui che nel corso del ‘17 visita il pittore Carlo Carrà in licenza di convalescenza. Il 1° giugno del ‘16 è promosso capitano medico di complemento. Alla fine detta guerra ritorna a Firenze e riprende il suo posto al Manicomio. Abita in Via delle Mantellate 3. II 12 gennaio 1918 il sindaco di Lastra a Signa ordina il ricovero di Dino Campana al Manicomio fiorentino. Viene portato all’Istituto fiorentino di osservazione per le malattie mentali. Il 28 gennaio è trasferito al cronicario di quell’Istituto, nell’Asilo di Castel Pulci, «cinque miglia verso ponente», dove morirà quattordici anni dopo, il 1° marzo 1932. Vi era già entrato a ventiquattro anni il 9 aprile 1909 per uscirne dopo I8 giorni. Questa volta fu per sempre. Le due vite si stanno avvicinando. E proprio per incontrare Dino Campana che quella mattina dell’8 novembre 1926 Carlo Pariani sale a Castel Pulci. Le sue ricerche su arte e pazzia sono continuate. Ha in mente di scrivere un grosso libro fatto di narrazioni e racconti di ricoverati, e non solo poeti come Campana, o scultori come Evaristo Boncinelli. Ci saranno tante altre storie o frammenti di storie di gente comune. Ha già in mente il titolo «Nel dominio della follia. Studi e ricerche di Carlo Pariani».
Ha anche buttato giù i titoli dei nove capitoli: Personalità umana, Pazzia e sue forme, Irregolarità non pazzia, Genio e pazzia, Attività varie nei pazzi. Infelicità nei pazzi, Communia tra pazzi e savi, Antichità della pazzia, Descrizione della pazzia nei poeti. Campana, Boncinelli e lo stesso Galeffì, di cui ha intenzione di riprendere le pagine pubblicate anni prima, rientreranno nel capitolo «Genio e pazzia». Qui il riferimento a Lombroso è esplicito. Pariani incontra Dino Campana quando è da quasi nove anni a Castel Pulci. Ad agosto di quell’anno, dopo un lungo silenzio, la Fiera letteraria ha pubblicato un articolo di Raffaello Franchi sul «Poeta Campana», il 27 ottobre è stato Paolo Toschi sul Resto del Carlino a scrivere un bell’articolo dal titolo «Il Rimbaud della Romagna». La sua curiosità è stimolata: incontrare un poeta, mentre finora ha incontrato solo pittori o scultori, ma è un poeta che ha introdotto il senso dei colori nelle nostre lettere — pensa. «Signor Campana mi permetta di presentarmi ammiratore de’ suoi lavori letterart, augurando li riprenda presto». Va a questo incontro ben preparato «su fatti e scritti che Dino doveva ricordare», ma non gli riesce di «stornarlo dai discorsi deliranti». Anche quello del 20 dicembre va a vuoto. Scansa le domande del visitatore, anche perché lo ritiene implicato in telepatie. Sono comunque momenti di conoscenza, di reciproco studio: hanno «li stessi occhi celesti. Campana osserva quel dottore fra una sigaretta e l’altra, che lo stesso Pariani gli ha fatto arrivare, per vincere le sue resistenze. Va mollo meglio il 22 e il 29 marzo dell’anno dopo e il successivo 2 aprile, anche se Campana gli dice: «Lei è mandato dal Governo per sapere se volessi uscire; ma non voglio uscire. Lei è suggestionato per venirmi a trovare, perché non ha nessun interesse di conoscermi. Lei rappresenta il re d’Italia che mi vuole mandare a Firenze, mentre io non ci voglio andare». Il 23 aprile gli scrive consigliandogli di riprendere gli studi letterari, il 30 aprile gli chiede «un diario delle percezioni esterne e corporee nell’ultima settimana». Il 22 ottobre lo incontra di nuovo, gli fa arrivare domande scritte. Lo visita ancora il 22 ottobre del 1929, ma conclusivo risulta l’incontro dell’11 aprile 1930, quando c’è un «lungo esame» in cui dà preziose notizie del passato e della sua arte «senza cadere in discorsi assurdi».
E’ anche il giorno in cui lo prega di alcune righe sul foglio di guardia anteriore dei «Canti Orfici» nell’edizione Vallecchi. L’ultima visita avviene il 16 aprile 1930: «i deliri di influenzamento non lo lasciarono libero un minuto e la parte morbosa tenne assoluto dominio». Gli chiede notizie biografiche, degli autori preferiti, del modo di comporre e dei temi, gli legge passi dei suoi «Canti Orfici» nell’edizione Ravagli, e poi in quella stampata da Vallecchi. Cerca di tenerlo fermo ai passi per i quali desidera chiarimenti: «l’indagine ebbe di mira i ricordi per saggiare la continuità psichica e la memoria: le quali risultarono regolari. Non conveniva eseguire ricerche intorno al sorgere ed al formarsi dei fantasmi lirici, non possibili nemmeno nei sani e in vicinanza dell’atto creativo per avviso anche di Cipriano Giachetti nel degno volume: La Fantasia. Saranno indicati i luoghi dove l’insania soverchia le difese e l’autonomia della facoltà estetica. Le notizie di cose ed eventi che ispirarono l’arte, schiariranno tratti che resterebbero oscuri, in più di quelli senza rimedio tali per alterata genesi ideativa e verbale o per troppa ricerca di effetti cromatici e melodici.
Esse gioveranno ad intendere lo scrittore Campana e ne godranno le lettere nostre». Seguono le chiose campaniane ai suoi versi nell’edizione del ‘14 e in quella del ‘28. A proposito di «A M.N.», il Pariani commenta: «II Campana, come il Carducci il Pascoli il D’Annunzio l’Oriani vati della Patria, avverte le ansie i decreti di lei e scrive versi di austera ispirazione, di gagliarda possa nella struttura e nel moto, con idee limpide e sicure: buoni per un popolo di lavoratori cui scorre dal cuore sangue romano. Rivestiti di note musicali ne esprimerebbero dovunque il carattere i travagli i meriti le querele lo sdegno». Riprende il paragone con Rimbaud: «La metamorfosi del Campana richiama quella di Arthur Rimbaud». anch’egli «ramingo e bizzarro per natura come certi tipi di Gorki, ma di coscienza, principiò allora a vergognarsi delle scioperataggini e degli eccessi e disconobbe infine i propri meriti di poeta per anteporre un lavoro qualunque regolare e profìcuo. Nella biografia rimpiange questo disegno non potuto attuare». Le due biografie sono diverse: «Nel Rimbaud persistevano residui dell’originaria indole aspra e sopraffattrice e tendenze di stirnerismo e di nietzschismo inesistenti nel Nostro.
Il primo vagheggiava talvolta piena indipendenza dalle leggi, l’eccedere nel fumare e nel bere, violenze per soggiogare gli altri, ricchezze acquistate in onta all’onesto. Questi residui spiegano l’offerta al fedifrago Menelik e ai barbari Ambara, di fucili da adoperare contro i precursori preparatori araldi banditori messaggeri antesignani esploratori aviatori imprenditori principiatori introduttori promotori esecutori dell’incivilimento e del giustissimo dominio italiano laggiù […] offerta che si ritolse, santa nemesi, in danno suo e dei soci, di salute e di denaro. Il Campana, nonostante abitudini nuove e randagie, ebbe della poesia un concetto severo; non si diede a bagordi e a droghe deleterie per liberare le forze del genio come opinava e fece il Rimbaud. Né rimasto semplice cittadino sarebbe divenuto, per cupidigia di lucro, complice di crudeli africani contro la Francia; il gentile animo lo vietava». La diagnosi clinica è netta: per Pariani Campana è al tetto da «psicopatia dissociativa ebefrenica; periodica i primi anni e continua dopo; sospesa e forse guarita nei mesi ultimi, restando meno validi il cervello e la mente». «Nacque con disposizione per le psicopatie, se consideriamo che quella toccata in sorte spesso dipende da tendenze congenite come le statistiche dimostrano. Deve esistere una originaria debolezza cerebrale cui aggiungendosi incentivi perturbatori succederanno disordini psichici. Una nativa irregolarità dimostravano in lui i mutamenti forti e non giustificati dell’umore, le irrequietezze e gli impulsi, l’antipatia verso la madre, il nomadismo; apparsi a quindici anni. Specie l’ultimo, durato sempre, indica una anomala struttura; così pure la propen-sione eccessiva per vino e caffè […] Non scambieremo Dino con quei degenerati in cui i guasti elementi germinali implicano anomalie del cerebro e quindi dello spirito, quali la psicosi ossessiva, la paranoia, l’imbecillità, il difetto etico, la follia isterica. Egli e gli affini sono dei deboli instabili nevrotici che facilmente ammalano di pazzia; guardiamoci dall ‘attribuire a questa meriti che non le appartengono».
Anche il giudizio sulla sua poesia è netto: «Ebbe indole poetica per decreto superno, come del resto i suoi simili: poeta nascitur». «Per i molteplici disordini rammenta Edgard Poe irrequieto, mutevole, posseduto dal terribile demone della dipsomania o cieco impulso ad ubriacarsi; Charles Baudelaire boemcsco per istinto e ricercatore dei piaceri che danno il vino e le droghe voluttuarie fino a divenirne infermo; Gèrard de Nerval viaggiatore in Europa ed in Oriente e fervido seguace di Bacco che di strano contribuì a renderlo matto; Paul Verlaine finito in un ospedale dopo una esistenza randagia zeppa di sbornie; Arthur Rimbaud incapace di rimanere due mesi nel medesimo luogo e ricercatore metodico di ebrezze. Il perenne assillo migratorio rievoca Kleist e Holderlin; morto l’uno suicida e l’altro folle; e il secondo — che spesso subordinava la parola al tono e al ritmo — autore di Inni Orfici in cui risuonano le voci dell’Universo. La sua arte ha affinità con quella di Verlaine e di Rimbaud raffinati evocatori di squisite sensazioni e di simboli; scopritori di nuove attinenze tra le cose, sovvertitori della sintassi ad esprimere caldi affetti vivide immagini, imitando la musica e la pittura.
Tranne reminiscenze esteriori, rimane indipendente nella scelta dei temi e nei modi di trattarli. La reputa dono prezioso che richiede studi e disciplina per dare frutti; non semplice sfogo di intime effervescenze o giuoco per difesa dalla noia. Diceva il vero allorché dichiarava essersi prefissa una poesia musicale colorita e aver introdotto il senso dei colori (alla moderna) nelle patrie lettere». Oramai Pariani ha tutti gli elementi, anche se avrebbe desiderato «ampliare la biografia invitando a contribuirvi i manicomi gli ospedali il collegio le carceri dove dimorò; interrogando parenti e conoscenti; ma le ricerche riuscirebbero lunghe difficili incerte e, d’altronde, già sappiamo abbastanza di lui». Ha anche raccolto notizie sullo scultore Evaristo Boncinelli entrato a San Salvi il 13 ottobre 1920. Ma mentre Campana sembra piuttosto dimenticato, Boncinelli è visitato da Attilio Vallecchi nel luglio 1927, da Ugo Ojetti il 16 agosto del 1928, e dal giornalista Giuseppe Lega nel 1930.
Nel ‘35 il manoscritto di «Nel dominio della follia» è pronto. Sono centinaia di pagine che testimoniano rincontro con tanti uomini e donne, con le loro storie e i suoi riferimenti culturali. Ha anche pensato ad una presentazione di Ugo Ojetti e di Alfredo Panzini. La dedica è «Ai cristiani e onesti genitori miei ottimi desideratissimi, Al dolce fratello Giovanni ne’ familiari e civili doveri operosa forza di religioso amore troppo presto scomparso, Alla soave moglie Fanny lume di gentilezza e di abnegazione onde ebbi i primi e brevi giorni felici». Fanny, Francesca Luigia Tinelli, Carlo l’aveva frequentata nelle sue continue visite milanesi al cugino Achille Pariani i morto pazzo. Timido, se ne era innamorato. E lei a chiedergli, alla morte del marito, di sposarla, ma a lui sembra di fare un grave torto al cugino e poi di essere oramai troppo vecchio per il matrimonio. Si decide solo quando Fanny si ammala di nefrite e per esserle vicino nella malattia la sposa quando ormai ha sessantanni. La porta via da Milano, sul lago Maggiore, dove, poco dopo Fanny muore. Primi brevi giorni felici. Quel libro non vedrà mai la luce. Lo storie di tante persone sconosciute non interessano e poi Carlo Pariani non è un cattedratico. Verranno salvate le «Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore» che Vallecchi pubblica nel febbraio del ‘38. Lì c’è scritto molto se non tutto su Dino Campana. L’ambiente letterario snobba il libro, si sente in colpa con Campana e non accetta che a parlarne sia un estraneo, un medico. Cala il silenzio sul libro, per Mario Luzi solo «un senso di sincera commiserazione e di disgrazia salva la grettezza di questo documentario» (Il Bargello, 28 maggio 1938).
Meno severo è Carlo Carrà, memore di quell’incontro all’Ospedale militare di Milano, sulle pagine dell’Ambrosiano. Incentra la recensione su Evaristo Boncinelli e a chiusura scrive: «Ma quello che più mi piace nel libro di Carlo Pariani non è l’esame scientifico ch’egli fa della malattia, quanto quell’aura di profonda umanità verso il misero infermo. La medesima caratteristica si ritrova nella prima parte del volume consacrata alla biografia del nostro compianto e inobliabile amico Dino Campana, poeta di alti meriti, non ancora adeguatamente riconosciuti se non da una eletta piccola schiera di buoni intenditori». L’uscita del libro un effetto immediato almeno l’ebbe, quello di dar vita all’iniziativa promossa da Bargellini sul Frontespizio per dare una tomba a Dino Campana, i cui resti altrimenti sarebbero andati dispersi. Ma Carlo Pariani non può esserci sulla tomba del poeta a Badia a Settimo nel marzo del ‘42: era morto a Laveno Mombello, sul suo lago, il 12 agosto 1941.
Un ringraziamento particolare a Elena Tinelli e Agostino Ranco, preziosi nei loro ricordi. Ringrazio anche Stefania Pini per le notizie su San Salvi.