“I pazzi sono sacri ad Allah”. Viva Dino Campana!

Lorenzo Somigli
mercoledì 9 novembre Riceviamo e molto volentieri pubblichiamo l’interessante articolo del giornalista Lorenzo Somigli

“I pazzi sono sacri ad Allah”, me lo diceva un caro amico libanese, geniaccio di Byblos. Ho apprezzato molto il testo di Rodolfo Ridolfi che spiega con dovizia il caso del manoscritto del “poeta pazzo” o meglio del poeta “che palpava il mondo al di là del convenzionale”, per dirla con il Papini [1].

La prima volta che lo lessi – quinto anno di Liceo e professoressa che pronunziava il suo nome con spiccato accento pugliese – ebbi la sensazione di uno scritto iniziatico, eleusino. Mi colpiva il suo far esplodere il dettaglio, il cogliere silenzi e misteri di luoghi conosciuti del quotidiano come nel suo “Giardino invernale”.

È una personalità quella del Campana che aveva certamente affiancato al continuo, irrinunciabile confronto con la classicità e la tradizione, anche pittorica, il confronto/scontro con la modernità, le Avanguardie che allora popolavano il capoluogo fiorentino, con gli influssi esteri, come quello francese, quello tedesco, quello statunitense ovvero gli amati Whitman e Poe (con le sue poesie come “Il Corvo” e non solo). Assorbito tutto, ci tenne a coltivare una sua alterità.

Campana non si sentiva futurista – pare da alcune lettere che li disprezzasse come disprezzava più o meno tutti (in questo più tosco che emiliano). Era tutto futurista nella simultaneità delle sue visioni che si affastellano come nel “Viaggio a Montevideo”. Quella simultaneità che rende bene il senso di un’epoca di cambiamento, che rivediamo nella frenetica elencazione del Fortunello di Petrolini con il suo “Sono: Omerico Isterico Generico Chimerico Clisterico”.

Del resto, la simultaneità, più che un esercizio di stile, è un moto dell’animo umano, con i suoi torbidi, le sovrapposizioni mnemoniche, le sue note stonate; è l’identità umana che è necessariamente complessa e plurale, più d’una naturalmente.

In più, la sua polemica, che si legge in svariate lettere, contro una cultura italiana incapace di aprirsi, oggi si direbbe “museificata”, è più che mai valida; la si ritrova, sempre in scritti di poeti coevi, seppur con toni più arrembanti, come Majakovskij, il poeta russo (tutto futurista lui) chiede di “…è tempo che le pallottole risuonino sulle pareti dei musei. Fuciliamo l’anticaglia…” [2]

E ancora i suoi sentimenti notturni e dolenti mi sembrano echeggiare – è lo spirito del tempo – quelli del Prufrock di T.S. Eliot [3] e di tutta la sua produzione.

Penso che tutt’oggi possa parlarci molto il Campana uomo del suo tempo, figlio dell’esordio inquieto del Novecento e delle contraddizioni di allora, con la sua ineguagliata ipersensibilità. Oggi che tutti vorrebbero essere ribelli e autentici e sentimentali e veri e poi finiscono per arenarsi nel fotocopiare il pensiero altrui, senza alcuna individualità. Oggi che siamo meno umani e molto più soli, ecco che la sensibilità del genio, di Campana e dei coevi, di coloro che altri lutti hanno vissuto ci può aiutare.

Potrei parlarne per ore, il Campana ogni volta mi appassiona e spero che altri si appassionino, come me. Per adesso ringrazio Rodolfo e il Vostro giornale per l’ospitalità. E stasera mi darò alla rilettura…

Lorenzo Somigli
Giornalista

1. Fonte: riportato nella introduzione dei “Canti Orfici” (ET Poesia) e tratto da “Il poeta pazzo” di G. Papini (1948).

2. “Troppo presto per cantar vittoria” (1918), contenuto in Ode alla Rivoluzione (Passigli Editore).

3. “The Love Song of J. Alfred Prufrock” (1910-1911).

Valorizzare e tutelare l’importante stele di Calisterna uno dei più importanti reperti storici marradesi

martedì 8 novembre riceviamo e pubblichiamo l’interrogazione di Si AMO Marradi sull’antica stele di Calisterna

I sottoscritti consiglieri: Raffaella Ridolfi, Giulio Bassetti, Mauro Ridolfi e Cristiano Talenti
Premesso che:
nel centro di Marradi in Via Fabbrini al n.6, in prossimità del Ponte degli Archiroli, all’interno di una privata abitazione, disabitata murata nella parete di un vano scale ed imbiancata, si trova la stele detta di C.Calesterna, importante reperto archeologico di epoca romana;
della stele, come riferisce il Gori nel 1743, se ne erano perdute le tracce, ma nel 1892 la ritrovò l’avv. Fabbrini fra le pietre da lavatoio;
la stele reca la seguente iscrizione: “VIV C.CALESTERNAE.C.F. PATRI TRABENNAE.L.F. TANNIAE MATRI SEX CALESTERNIAE. C.F. FRATRI C.CALESTERNA.C.F. FECIT.” (Ai vivi:a Caio Calesterna figlio di Caio padre a Trabennia Tannia figlia di Lucio madre, a Sesto Calesterna figlio di Caio fratello, Caia Calesterna figlia di Caio fece);
nel 1960 il soprintendente dott. Nicosia visionò la stele ma solo nel 1989 il sindaco Ridolfi avviò formalmente l’iter con le competenti autorità per restituire agli studiosi ed ai cittadini interessati l’importante reperto ed ottenne nel 1991 il Decreto del Ministero per i Beni culturali che dichiarava la stele di interesse particolare ed importante e come tale sottoposta a tutte le disposizioni di tutela contenute nella legge 1/06/1939 n.1089 e successive modificazioni sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico in quanto unica attestazione conosciuta della famiglia Calesterna, gens di origini umbro-etrusche e perché si configura, grazie alle sue peculiarità toponomastiche e per i suoi riferimenti topografici, come documento di grande importanza nell’individuazione del tracciato della via antica ricalcante l’odierna via Faentina e nella definizione della omogeneità sociale ed economica dei due versanti appenninici già in età preromana;
da allora se si fa astrazione per una interrogazione del 2003 e del Convegno dell’aprile 2012, l’importante stele e finita fuori dalle doverose attenzioni dell’Amministrazione Comunale;
Interrogano il Sindaco
per conoscere se non ritenga importante, come gli interroganti ritengono, che il Comune riprenda subito ad esercitare l’azione di controllo, tutela e promozione del bene e soprattutto garantisca agli studiosi ai cittadini interessati ed ai turisti, con un programma concordato con la proprietà dell’immobile, anche con appositi opportuni indicatori segnaletici, la possibilità di visite, anche guidate, alla antica stele valutando nel contempo, con la proprietà, il suo trasferimento in uno spazio culturale ed espositivo pubblico.

La verità sul ritrovamento de “Il più lungo giorno” il manoscritto di Dino Campana smarrito da Soffici

lunedì 7 novembre
LA VERITÀ SUL RITROVAMENTO DEL MANOSCRITTO DE IL PIÙ LUNGO GIORNO

La vicenda del manoscritto è nota. Nel Novembre del 1913 Dino consegna a Papini a suo dire la sola e unica copia delle sue poesie; per disattenzione o altro, Ardengo Soffici (codirettore della rivista Lacerba) smarrì il manoscritto del poeta di Marra-di, e a nulla valsero le minacce e le preghiere che a più riprese Campana rivolse sia a Papini (al quale era stato consegnato il manoscritto) che a Soffici. Questa sparizione, casuale o voluta, provocò nel poeta delusione, disperazione, rabbia; ma anche un frenetico desiderio di vedersi stampato, di realizzare il suo sogno di poeta. Soffici in un trasloco lo perse, costringendo il poeta (che ha sempre dichiarato che quello scritto era l’unica copia di cui disponeva) a un lavoro di rielaborazione che in pochissimi mesi portarono ai Canti Orfici come sono stati pubblicati. Rinvenuto fra le carte di Soffici (probabilmente dallo stesso Soffici), il manoscritto campaniano è stato studiato a fondo, con la conclusione che la perdita da parte di Soffici costrinse e impose a Campana una rielaborazione, in pochi mesi, su testi che conservava (alcuni, per esempio, nel Quaderno), che lo porterà alla sintesi ultima e più matura dei Canti Orfici. Il più lungo giorno vergato con particolare cura, quasi sicuramente nella soffitta della sua casa a Marradi, dove il poeta si ritirava per studiare e per scrivere, come testimonia nel 1957 il fratello Manlio, fu consegnato da Dino Campana a Papini e Soffici per un’eventuale pubblicazione. Siamo nel 1914, la guerra è già scoppiata e Dino a settembre arriva a piedi a Firenze per vendere il suo libro alla gente seduta ai tavolini delle Giubbe Rosse e a quelli del Paszkowski. Dino vede il suo libro accettato, forse più per gioco che per un reale interesse, e si permette anche di strapparne qualche pagina, prima di consegnarlo all’acquirente che non l’aveva completamente convinto di poter capire tutta la sua poesia. Il capolavoro dei Canti Orfici fu stampato soltanto grazie alla sottoscrizione avvenuta nel 1914 fra i quarantaquattro concittadini del poeta. Alla comunità marradese va dunque il merito di avere reso possibile la pubblicazione del grande capolavoro letterario del ‘900.

Luigi Cavallo-Vittorio Sgarbi Poggio a Caiano Fondazione A.Soffici
Nel 1964 muore Ardengo Soffici e, fin dal 1965, Luigi Cavallo nota tra le carte di Soffici a Poggio a Caiano, il manoscritto smarrito. Per vari motivi i familiari di Ardengo Soffici non ritennero opportuno dare subito notizia del ritrovamento, che fu data soltanto nel 1971 con un articolo di Mario Luzi sul Corriere della Sera del 17 giugno intitolato “Un eccezionale ritrovamento fra le carte di Soffici. Il quaderno di Dino Campana”. L’autografo, risultato di grande utilità per gli studi campaniani, venne consegnato agli eredi del poeta. Nel 1973, a cura di Archivi-Roma, d’intesa con la Casa Editrice Vallecchi di Firenze, fu pubblicata la riproduzione anastatica de Il più lungo giorno con prefazione di Enrico Falqui e testo critico di Domenico De Robertis.
Nel 2001, essendo da parecchio tempo esaurita la edizione Archivi – Vallecchi, il Centro Studi Campaniani Enrico Consolini, di Marradi curò una nuova edizione dell’importante manoscritto. Luigi Cavallo, critico d’arte e profondo conoscitore di Soffici e di Rosai (possiede la copia autografa dei Canti del 1914 donata da Dino Campana ad Ottone Rosai completa di dedica al Kaiser) curatore fra l’altro dell’esposizione su Soffici che si svolse a Firenze alla Galleria Pananti dal 4 ottobre al 15 novembre 2001, cui fu affidato l’archivio Soffici dall’anno della scomparsa del maestro, ha fatto luce sulla verità del ritrovamento de Il più lungo giorno una versione più rusticana come la definisce, dei Canti Orfici. Cavallo ha più volte affermato e scritto di avere visto il manoscritto a Poggio a Caiano fra le carte di Soffici già nel 1965, conservato in posizione privilegiata insieme alle lettere di Mussolini. Quindi, non un ritrovamento, quello del 1971, ma una scelta di opportunità. In questa operazione di restituzione ritardata del manoscritto, fu coinvolto Mario Luzi. Luzi scelto come persona degna e Vale-ria Soffici chiese a Cavallo cosa ne pensasse. Io premetti perché fosse lui, afferma Cavallo ed aggiunge: Molto probabilmente Soffici aveva individuato il manoscritto da tempo, forse nel 1947 quando riordinò le sue carte nel secondo dopoguerra ma non aveva ancora deciso cosa farne. Sì io lo vidi agli inizi del 1965, Valeria (Soffici Gattai figlia di Ardengo) e Maria (la moglie) volevano riconsegnarlo agli eredi che purtroppo ne hanno fatto mercato, mi ha detto Cavallo. Non c’è necessità di nessuna polemica; d’altro canto Soffici aveva offerto a Sigfrido Bartolini tanti documenti del suo immenso archivio e fra questi poteva finirci anche il manoscritto de Il più lungo giorno. La critica e tutti noi avevamo accettato la versione, del miracolo che ha permesso di chiarire tutto o quasi. Dopo la scomparsa di Soffici, nel 1971 la vedova, signora Maria Soffici, riordinando le carte del marito (materiale di notevole interesse, è da supporre, per le fitte relazioni che intrattenne con artisti e scrittori di mezza Europa), ritrova il famoso fascicolo; Mario Luzi ne dà notizia al mondo, su cinque colonne nelle pagine del Corriere della Sera, il 17 giugno dello stesso anno, immaginando meraviglie da una improbabile riapparizione del testo perduto, mentre invece abbiamo dovuto prendere atto che le cose, per la verità, non sono andate proprio così. Ma qual è il rapporto fra il manoscritto del Il più lungo giorno e i Canti Orfici? Come dicono Enrico Falqui (nella introduzione) e Domenico De Robertis (nel commento critico al testo), in effetti il manoscritto appare come una bella copia, uno status non definitivo del testo, una redazione ordinata del materiale proveniente da altre carte, alle quali sicuramente Dino attinse anche per la redazione finale del suo libro. In pratica i Canti Orfici riprendono per circa due terzi con poche varianti la struttura e il testo del manoscritto, perdendo per strada solo alcune poesie che sono state recuperate e pubblica-te in altre carte venute alla luce prima del ritrovamento. La storia della ricostruzione a memoria dell’intero libro è da considerarsi pura leggenda. Luzi sostiene: Molto emozionata, la figlia Valeria mi comunicò la notizia ma alla mia impazienza di vedere il reperto oppose la necessità del consenso materno. In realtà madre e figlia erano molto comprese della responsabilità del ritrovamento, ma infine maturò tra loro la convinzione che il primo dovere fosse di rendere pubblica la cosa, ed è proprio ciò che vado facendo. Intanto si sono l’una e l’altra, d’accordo con gli altri due figli, orientate e confermate nel proponimento di donare il quaderno a una importante Biblioteca e sperano che non sorgano ostacoli a questo loro disegno. Le notizie che ci dà Luigi Cavallo nell’articolo pubblicato nel 2002 su Il Giornale sono davvero sorprendenti. Quando Valeria Soffici mi cercò per comunicarmi il ritrovamento del manoscritto campaniano tra le carte del padre, non mi disse che il fortunato evento si era verificato sei anni prima secondo la data memorizzata da Cavallo. Ma Luigi Cavallo insiste di aver visto tra le carte di Ardengo Soffici, vicino alle lettere a Mussolini, a Poggio a Caiano il manoscritto de Il più lungo giorno.
Il 3 marzo 2005 Luigi Cavallo mi scrisse una lettera e mi inviò l’articolo pubblicato dal Giornale che qui di seguito riporto: Il manoscritto dei Canti Orfici fu ritrovato nell’archivio di Soffici nel 1965. Molto dopo infatti affiorò il manoscritto di un’altra poesia di Campana, Domodossola 1915, tuttora nell’archivio di Poggio (riprodotta nel volume di Campana curato da Gabriel Cacho Millet – Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, 1978). Di quel ritrovamento furono comunque informati i figli di Soffici, Valeria e Sergio, e il genero di Papini, intimo di famiglia, Barna Occhini.
Si tenga presente in ogni caso che Maria Soffici, anche con qualche sottolineatura vivace di carattere, si dichiarava unica proprietaria e custode delle carte del marito, finché ebbe forze. Era tale il suo attaccamento a ogni foglio che Ardengo aveva toccato, da far scattare una sorta di gelosa ritrosia per ogni richiesta di pubblicazione. Il rispetto per l’autografo di Campana consigliava di non affrettare la diffusione della notizia, di sondare a fondo nelle carte, di non divulgare quel ritrovamento in tempi del tutto inadatti, senza per questo che venisse in mente che si stava commettendo un arbitrio grave nei confronti della storia di Campana, come scrive Luzi. L’intenzione era di non dare appigli per mescolare fatti di carattere squisitamente letterario con argomentali politici, vista la damnatio memoriae da cui era stata afflitta la figura di Soffici. Le infauste vicende politiche del Sessantotto giustificarono ulteriore prudenza. Vedendo nell’insieme quanto accadde, mi sembra che per la famiglia Soffici fosse più che lecito attendere anni meno sinistri, e una voce adeguata come quella di Mario Luzi per rendere pubblico il ritrovamento del manoscritto. L’autografo venne consegnato agli eredi del poeta. Nel 2004 è andato all’asta ed è divenuto proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze che a sua volta lo ha consegnato alla Biblioteca Marucelliana di Firenze.

Rodolfo Ridolfi Autore del Libro “Per l’amor dei poeti o principessa dai sogni segreti” Appunti su Dino Campana
Edizioni Centro Studi Campaniani “Enrico Consolini” 2005 pag 65-68