La Follia creativa del poeta orfico, maledetto e bipolare.

martedì 27 ottobre

imagesMK5H3GHXPubblichiamo questa interessantissima riflessione dello psichiatra Massimo Scalini sul poeta Dino Campana svolta in occasione della Premiazione del Concorso “La Poesia ci salverà” 19 settembre 2015:

Colpisce quanto la genialità creativa possa convivere con la follia. La geniale follia creativa di Dino Campana pare infatti un ossimoro insolvibile. Eppure Dino era indiscutibilmente geniale nella creatività poetica e decisamente folle nella sua vita psichica. E con lui altri grandi artisti e scienziati sono stati al tempo stesso folli e geniali. Non voglio qui fare l’elenco un po’ stucchevole dei folli divenuti famosi per la loro genialità; mi limito a citate il discorso di Steve Jobs ai giovani laureandi della Stanford University, tenuto il 12/06/2005, allorché il fondatore della Apple ha lasciato loro il suo testamento morale, quello di un genio prestato alla follia di voler cambiare il mondo, e di riuscirvi. Ha detto Steve Jobs: Il vostro tempo è limitato, quindi non sprecatelo vivendo la vita di qualcun altro. Siate affamati, siate folli, perché solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo lo cambiano davvero. Ciò nonostante, anziché rappresentare anche un valore costruttivo, la follia creativa viene più spesso percepita come una vera e propria malattia, che chiamiamo psicosi maniaco-depressiva, o disturbo bipolare. Dino Campana, il poeta maledetto – e maledettamente geniale – era affetto dalla malattia bipolare, la quale nel suo caso contempla a fianco della genialità creativa la distruttività della mania psicotica. Abbiamo numerose prove della follia di Campana: dalle cartelle cliniche, che lo descrivono come affetto da “Demenza Precoce” (Dementia Praecox), alle bizzarrie comportamentali e le stravaganze grottesche, fino ai vissuti deliranti e francamente psicotici descritti dal Pariani, lo psichiatra del manicomio di Caste Pulci dove Dino trascorse gli ultimi quattordici anni della sua vita maledetta. Malgrado ciò, da molto tempo esiste negli ambienti culturali – e purtroppo è ancora florido – una sorta di movimento negazionista teso a scotomizzare la malattia di Campana, percepita come un disvalore da negare contro ogni evidenza. Il più accanito fautore della dietrologia biografica negazionista è stato Sebastiano Vassalli, purtroppo scomparso alcuni mesi fa. Fu un grande scrittore, vincitore dello Strega e del Campiello, e studioso della vita e dell’opera di Campana; scrisse molte cose lodevoli su Dino, fra le quali ho molto apprezzato La notte della cometa e Natale a Marradi – forse perché sono romanzi –, ed altre biografiche decisamente spregevoli. In linea con la sinistra internazionale che ha partorito il movimento chiamato Antipsichiatria, dal quale è poi nato in Italia – dove almeno in tema di rigidità ideologica non siamo secondi a nessuno – quello di Psichiatria democratica, Sebastiano Vassalli ha voluto emancipare la biografia di Campana dalla vita non romanzata del Pariani a quella per lui vera di un reietto inviso agli intellettuali del suo tempo ed ai marradesi ostracisti, che l’hanno voluto matto: i primi per interesse – come i futuristi ed i soliti Ardengo Soffici e Giovanni Papini – ed i conterranei del suo povero paese  – un posto da incubo dice Vassalli – per la vergogna della convivenza storica ed ineludibile con un matto da manicomio. Ma i primi a volere Dino in manicomio – sostiene Vassalli – furono la madre ed i familiari, che lo preferirono nel luogo della follia piuttosto che girovago del mondo a dare pubblico scandalo. Per Vassalli non fu dunque la devastazione psichica della malattia a portare Dino in manicomio, ma furono un ambiente culturale avverso, un paese natio arretrato, ed una madre cattiva, tutti inconsapevolmente coesi, come troie dagli occhi ferrigni, nel determinismo crudele e socio-patogeno della follia di Campana. La psichiatria, coi suoi metodi atroci, custodiali, contenitivi e repressivi, fu secondo Vassalli il suggello per una condanna di Campana fedele alle volontà di una società da rifondare sotto i colpi di una falce e di un martello antipsichiatrici.

Anche se non penso che Vassalli abbia mai aderito apertamente all’Antipsichiatria, la sua biografia campaniana non è certo estranea ad una tale empietà, dalla quale avrebbe dovuto astenersi per onestà intellettuale, vista la sua palese incompetenza psicopatologica.

Come di ogni cosa, tuttavia, anche dell’Antipsichiatria non tutto è da buttare. Al contrario: la legge 180, di chiara ispirazione antipsichiatrica, ha di fatto chiuso i manicomi custodiali e punitivi e ha restituito gli alienati alla dignità ed ai diritti di persone malate; e la stessa cosa questo movimento ha cercato di fare con coraggio nei paesi governati dalle tirannie fasciste e sovietiche, dove la patente pirandelliana di matto ha consentito alla tirannide del dittatore di isolare nei manicomi-lager di stato l’avversario politico, o l’intellettuale dissidente, i quali sono stati  costretti ad abiurare – obtorto collo – nel silenzio siderale della follia cucita loro addosso per annientarli in vita, evitando di farne dei martiri post-mortem.

Quando però si nega che una condizione psichiatrica come la malattia bipolare non sia stata l’artefice del dramma psichico di Campana, per esaltarne la genialità poetica, come se la patologia sia con essa incompatibile, si fa un’operazione intellettuale scorretta e pericolosa. Scorretta perché chi, come il Vassalli, nulla sapeva di psicopatologia, avrebbe dovuto astenersi dal dare un giudizio biografico fuorviante; ed è soprattutto un’operazione pericolosa perché intrisa di collusione con l’idea paleologica e falsa della psicopatologia come forza deviante e non anche creativa. In questo modo quante giovani vite di talento, affette dalla malattia bipolare, continuano purtroppo a vivere nell’ombra della vergogna per una condizione psicopatologia curabile che comunque non preclude la genialità di chi ne è affetto, o se vogliamo non ne cancella la follia creativa cui alludeva Steve Jobs, senza la quale il mondo vivrebbe ancora oggi alla luce delle lampare medioevali, a scrivere con la penna d’oca di streghe e indemoniati, di posseduti e tarantolati.

Ed è proprio questo il pericolo dell’Antipsichiatria: quello di indurre i malati alla vergogna per la loro condizione, dipingendoli come vittime sacrificali di una società malata e patogena, che però ammala solo loro, come fossero portatori di una vulnerabilità psichica da nascondere, e non già di una malattia curabile, come tutte le altre, con i metodi della scienza medica e della psicologia cognitiva.

Poiché la psichiatria non è, almeno in occidente, di destra o di sinistra, democratica o dispotica, ma rappresenta una scienza per la salute psicofisica del malato di una qualche psicopatologia, il negazionismo antipsichiatrico campaniano di Sebastiano Vassalli è purtroppo un esempio triste di quanta strada ci sia ancora da percorrere lungo il cammino verso una lettura laica e non ideologica e preconcetta della malattia psichica, che di fatto nasconde Campana, come ogni altro bipolare malato e geniale, dietro le vesti malconce di un personaggio maledetto e rifiutato benché cantore meravigliosamente orfico.

La vicenda umana di Dino Campana dovrebbe invece essere portata ad esempio di quanto la malattia bipolare non rappresenti un destino inevitabile verso la deriva sociale, ma costituisca anche un’occasione per far emergere il lato creativo e talvolta geniale di una malattia oggi curabile.

Massimo Scalini psichiatra