Quaderni del Maestro di Marradi

Copertina Quaderni 4

La Lezione Originale dei Canti Orfici illuminata dal viaggio di Dante e chiusa dal Song of Myself di Whitman.

Nell’anno del 700° anniversario della morte di Dante Alighieri, molto volentieri curo la pubblicazione di questa anastatica dei Canti Orfici proprio perché come afferma Luigi Bonaffini: La presenza di Dante nei Canti orfici è da considerarsi di importanza fondamentale alla comprensione della struttura e del sottofondo mitico-religioso del libro. Il viaggio dantesco illumina continuamente il viaggio di Campana, in una continua interazione e compenetrazione dei piani narrativi e simbolici, ed è il filo conduttore su cui si bilancia, in un equilibrio precario, la visione disgregante di Campana. La pubblicazione con le correzioni autografe di Dino Campana che il tipografo Ravagli aveva ignorato vengono accolte solo in parte dallo stampatore – che evidentemente aveva già mandato in stampa alcuni fascicoli del libro – per cui nell’edizione del 1914 si leggono ancora refusi: a pag 8 riga otto, la parola “tratto” è capovolta; nella pagina 60, riga 20-21 è contenuto “mitsico” anziché “mistico” e in Viaggio a Montevideo, al verso 6 si mantiene “Ignota scena” invece “D’ignota scena”, e al verso 8 “Blu, su la riva dei colli: come tremare una viola” invece di “Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola….”. Il 20 agosto 2004 curai, per il Centro Studi Campaniani “Enrico Consolini” di Marradi, nel 90° anniversario della nascita di Dino Campana, una analoga iniziativa editoriale. Nella presentazione di quel libro ricordavo come sulla base del ritrovamento delle bozze di stampa dei Canti Orfici davamo alle stampe per la prima volta un’edizione dei Canti che riproponeva la lezione originale, integrata da quelle poche correzioni autografe di Campana, contenute nelle bozze di stampa donate dal poeta a Paolo Toschi nell’estate del 1914 nella Osteria di Barberena a Marradi. Dino Campana disse a Paolo Toschi mostrandogli la bozza dei Canti Orfici: “Voglio che lo legga anche Lei, il mio volume; non posso regalargliene una copia, ma Le darò le bozze, tanto fra i poeti (quel giorno io dovevo essere poeta per forza) non si fanno complimenti. E oggi sfoglio quelle bozze segnate di correzioni a lapis copiativo o a penna, grosse come se fossero scritte con un fiammifero”.
Quella edizione del 2004 è ormai introvabile un motivo in più per procedere a questa pubblicazione impreziosita con l’irripetibile e straordinario contributo critico di Luigi Bonaffini il più autorevole e competente studioso della componente dantesca in Dino Campana, professore emerito di Lingua e Letteratura Italiana del Dipartimento di Lingue e Letterature Moderne del Brooklyn College di New York che può vantare numerosi saggi su Dante e Campana e che è autore di due pregevoli edizioni dei Canti Orfici in lingua inglese. Con Luigi Bonaffini ho avuto l’onore di condividere tre grandi eventi nel segno di Dante e di Campana: il genetliaco campaniano il 20 agosto 1992 a Marradi, la giornata di Studi su Campana dell’American Association of Italian Studies nel 2004 ad Ottawa ed il convegno del 2008 a New York all’Istituto Italiano di Cultura dove Bonaffini tenne una lezione magistrale su Dante e Campana ed io di Whitman e Campana.
Mi piace infine aggiungere a questa presentazione un breve ricordo testimonianza scritto da mio padre Renato sullo stampatore Bruno Ravagli e sulla famiglia Campana: “Quando la stamperia Ravagli di Marradi, dopo estenuante attesa di un giudizio critico da parte del Soffici e del Papini, che come tutta risposta al Campana smarriscono il manoscritto, accetta di stampare “Canti Orfici”, nel 1914, si apre un nuovissimo capitolo della nostra letteratura. L’opuscoletto giallo paglierino con su scritto il titolo in nero a bel rotondo, semplice disadorno appare severa condanna al vuoto culturale e all’insipienza di un fatuo messaggio futurista, bell’esempio di “tecnica cerebrale” valido solo all’imbecillità di menti che diventeranno fasciste. Il nuovo messaggio campaniano due sole parole: “Canti Orfici” indirizzato all’anima ed al cuore dell’uomo nuovo muove l’offensiva. Dino Campana moriva nel 1932, sul finire dell’inverno, il 1° marzo all’età di quarantasette anni. Le cause della morte furono attribuite ufficialmente a setticemia intervenuta per infezione di ferita da filo spinato arrugginito. Così si concludeva un’esistenza soffertissima che aveva iniziato il suo atto finale con il ricovero nella casa psichiatrica di Castel Pulci quattordici anni prima. Fu sepolto a Badia a Settimo presso l’antica Abazia, ma oggi le ceneri riposano nella chiesa stessa, poiché la tomba era stata profanata da un bombardamento durante l’ultimo conflitto mondiale. Riandare al travaglio che impronta la biografia di questo personaggio è, senza dubbio, impresa scabrosa, tanti sono i motivi che costellano l’umano pellegrinaggio del poeta, il più grande dei poeti del Novecento….
Ho conosciuto il papà di Dino “Z’vanen” Giovannino come si diceva da noi, il maestro Giovanni Campana, quando, frequentavo le elementari del Capoluogo; lo zio, Torquato, direttore didattico, il cui figlio Raffaello, “Lello per gli amici” , era stato per un po’ di tempo fratello di latte di mio fratello Azzario; il fratello Manlio, col quale intrattenevo una stretta amicizia, la cognata Elisa, la cugina Mimma, le nipoti Lilia ed Elda. La mamma di Dino, la tanto discussa signora Fanny Luti, invece, non la ricordo per nulla, anche se era sicuramente cliente di mia madre che conduceva il negozio di pizzicheria in Via Pescetti a Marradi dal 1921. Ho frequentato molto la casa del direttore Torquato e di sua moglie Gina Diletti ma non ho mai sentito parlare di Dino. Non sapevo che c’era un Campana in manicomio da un anno prima della mia nascita, ne seppi, nel 1932, frequentavo allora la 2^ ginnasiale: era morto il poeta, autore dei “Canti Orfici”.
La sua vita, le sue traversie, i suoi amori non venivano pubblicizzati nel borgo, forse a causa di quel “perbenismo” che affliggeva tutto il paese bigotto e fascista. La morte del Poeta a Castel Pulci (Firenze) non provocò scalpore né cronaca appariscente in paese, abituato a considerare solo stravaganze tutte le vicende del “matto dei Campana”. Nè avrebbero potuto interpretare altrimenti un’anima artistica e geniale come quella di Dino tanto discosta dalla natura scialba, piatta, insipiente di quel mondo retrogrado che lo circondava. Dunque non sapevo nulla. Ma un giorno, poteva essere un pomeriggio del 1936-1937, ho incontrato, si fa per dire perché abitava vicino a me, lo stampatore Bruno Ravagli, bassotto, tarchiato, testa bianca. Viveva ormai, solo, in Via della Tintoria, in una casetta in proprio stretta tra altre davanti al cortile dell’Asilo Infantile. I fratelli, Francesco il professore liceale e Fernando il marmista, erano morti. Conduceva vita dignitosa, appartata, ma grama e veniva spesso nel negozio di mia madre Agnese a fare spesa e barattava in cambio di qualcosa, un po’ di carta straccia, avanzi di Tipografia, adatta per incartare il sapone. Non è un luogo comune. Allora si adoperava volentieri nei negozi perché l’oleato ed il paglierino costavano cari ed il sapone guadagnava poco. Me lo ricordo sempre nel suo spolverino nero, come ai tempi della stamperia, col suo malloppo sotto il braccio, passo svelto nonostante l’età. Ero studente liceale e quella carta stampata e quei pacchetti di opuscoli gialli legati col fil di ferro mi balzarono agli occhi. Erano copie della “Biblioteca Italiana” diretta dal Prof. Francesco Ravagli e stampata in Marradi dal fratello Bruno; erano copie di Illustrazione Italiana; erano oltre cinquanta copie di “Canti Orfici” fra legate, sfuse, con o senza la strisciolina bianca sulla dedica a Guglielmone, tanto criticata dalla sapienza locale che teneva banco in farmacia. Il primo impatto col Poeta, fino ad allora sconosciuto non fu felice; non afferravo. Però cresceva in me quell’interesse che non mi lascerà più. E seppi di questo infelice personaggio, delle sue vicissitudini. Dei suoi mali e dei commenti che si muovevano intorno a lui ed alla sua opera…”
Mio padre definisce Campana “il più grande poeta italiano del novecento” forse con la stessa autrance di Carmelo Bene che negli anni ottanta portò su alcuni palcoscenici dei più importanti teatri italiani insieme alla lectura Dantis la lettura di Campana e ricordo per avere assistito ben due volte, a Firenze e a Prato, alle sue performances come l’attore pugliese affermasse che Dante era stato il più grande poeta italiano del Medioevo e Campana era il più grande poeta italiano del nostro novecento.
Dino Campana chiude gli Orfici con una citazione a colophon da Walt Whitman: “They were all torn/and cover’d with the boy’s blood”. che nel Song of Myself è in realtà “ The three were all torn and cover’d with the boy’s blood”. Carlo Pariani nelle sue Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore scrive: …L’epigrafe finale tradusse così: Erano tutti stracciati e coperti col sangue del fanciullo” aggiunse “E’ una poesia di un americano Walt Whitman”.
Lello Campana, anch’egli poeta e grande appassionato di armi, buon amico di famiglia più volte parlandomi di poesia mi raccontava dell’avventuroso viaggio di suo cugino Dino in Sud America e della sua partenza da Genova: “Quando partì da Genova, l’aveva accompagnato mio padre Torquato, aveva con se una lettura che lo entusiasmava Leaves of Grass di Walt Whitman e la pistola belga calibro 38” che aggiungeva Lello, “ho usato tanto anch’io”. Whitman è il centro della letteratura statunitense ma ha influenzato anche quella che attinge ad altre radici da Thomas Stern Eliot a Ezra Pound, da Federico Garcia Lorca a Borges, Pablo Neruda, Dino Campana e Cesare Pavese. Fra le sue fonti letterarie Omero, Eschilo, Dante. Come quella di Dino Campana la poesia di Whitman è permeata della Divina Commedia che Whitman raccontò di aver letto in un bosco. L’americano che, a differenza di Campana visse a lungo influenzò il poeta di Marradi non soltanto nel colophon ma anche nel finale di Pampa si possono cogliere diversi riferimenti a Whitman; il bivacco notturno che ricorre nella sezione Drum Taps contamina Campana così:
“Mi ero alzato.
Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio.”
Torna la visione disgregante di Campana sottolineata da Luigi Bonaffini che consente di affermare che i Canti Orfici sono un canto di un Myself del poeta che cerca e perde la propria Euridice e finisce, come Orfeo, lacerato e diviso.

Il video realizzato dal Regista Iacopo Vannini che il Centro Studi Campaniani “Enrico Consolini” ha prodotto con il contributo della Regione Toscana che lo ha finanziato.

L’ anno di Dante mi ha riportato alla mente tre grandi eventi nel segno di Dante e di Campana che ho condiviso con il Prof. Luigi Bonaffini del Brooklin College di New York il più autorevole e competente studioso della componente dantesca in Dino Campana: il genetliaco campaniano il 20 agosto 1992 a Marradi, la giornata di Studi su Campana dell’American Association of Italian Studies nel 2004 ad Ottawa ed il convegno del 2008 a New York all’Istituto Italiano di Cultura dove Bonaffini tenne una lezione magistrale su Dante e Campana ed io parlai di Whitman e Campana.
I Canti Orfici sono un grande album di un paesaggio influenzato da citazioni culturali toscane Giotto, Michelangelo, Leonardo, Piero della Francesca immerse nel presagio dei suoi “divini primitivi” Dante e Frate Francesco. oppure in quelli barbarici e bizantini della Romagna: ‘Volevo nel paesaggio collocare dei ricordi” afferma Campana.
Mio padre definisce Campana “il più grande poeta italiano del novecento” forse con la stessa autrance di Carmelo Bene che negli anni ottanta portò su alcuni palcoscenici dei più importanti teatri italiani insieme alla lectura Dantis la lettura di Campana e ricordo per avere assistito ben due volte, a Firenze e a Prato, alle sue performances come l’attore pugliese affermasse che Dante era stato il più grande poeta italiano del Medioevo e Campana era il più grande poeta italiano del nostro novecento.
Dino Campana chiude gli Orfici con una citazione a colophon da Walt Whitman: “They were all torn/and cover’d with the boy’s blood”. che nel Song of Myself è in realtà “ The three were all torn and cover’d with the boy’s blood”. Carlo Pariani nelle sue Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore scrive: …L’epigrafe finale tradusse così: Erano tutti stracciati e coperti col sangue del fanciullo” aggiunse “E’ una poesia di un americano Walt Whitman”.
Lello Campana, anch’egli poeta e grande appassionato di armi, buon amico di famiglia più volte parlandomi di poesia mi raccontava dell’avventuroso viaggio di suo cugino Dino in Sud America e della sua partenza da Genova: “Quando partì da Genova, l’aveva accompagnato mio padre Torquato, aveva con se una lettura che lo entusiasmava Leaves of Grass di Walt Whitman e la pistola belga calibro 38” che aggiungeva Lello, “ho usato tanto anch’io”. Whitman è il centro della letteratura statunitense ma ha influenzato anche quella che attinge ad altre radici da Thomas Stern Eliot a Ezra Pound, da Federico Garcia Lorca a Borges, Pablo Neruda, Dino Campana e Cesare Pavese. Fra le sue fonti letterarie Omero, Eschilo, Dante. Come quella di Dino Campana la poesia di Whitman è permeata di Dante Alighieri che Whitman raccontò di aver letto in un bosco. L’americano che, a differenza di Campana visse a lungo influenzò il poeta di Marradi non soltanto nel colophon ma anche nel finale di Pampa dove si possono cogliere diversi riferimenti a Whitman; il bivacco notturno che ricorre nella sezione Drum Taps contamina Campana così:
“Mi ero alzato.
Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio.”
Campana stesso afferma di voler creare una poesia italiana di stampo europeo. E’stato, ampiamente documentato dalla critica che nella poesia orfica di Dino Campana confluiscono varie esperienze culturali e letterarie, tra cui la tradizione misterico-religiosa, la poesia europea appartenente al filone orfico, e poi Nietzsche e Schurè. Non c’è dubbio che egli fosse sempre disposto a raccogliere ciò che di valido la tradizione occidentale poteva offrire. La ricerca e la scoperta di una nuova dimensione poetica non comportava affatto il rifiuto indiscriminato della tradizione, come alcuni hanno voluto credere, fedeli al mito di un Campana ribelle ed avanguardista a tutti i costi, ma si basava, e lo stesso poeta lo dichiara apertamente in una lettera del ’15 a Papini, sull’innesto della “più viva sensibilità moderna nella linea della più pura tradizione italiana”. La più pura tradizione italiana per lui significava soprattutto Dante e Leopardi, come suggerisce in un’altra lettera ad Emilio Cecchi: soprattutto Dante su cui la poesia moderna doveva innestarsi Infatti i riferimenti espliciti a Dante sono numerosi nell’opera di Campana. L’immagine di Francesca è un leit motif che ricorre più volte nella Notte e nella Verna, mentre non mancano i versi danteschi citati per intero. Il dantismo di fondo dei Canti orfici si trova ad esempio nelle similarità tra la salita alla Verna e l’ascesa purgatoriale di Dante: Ed è poi evidente il nesso tra la “poesia di movimento” di Dante, come la chiama Campana, ed il motivo del viaggio nei Canti Orfici.

La presenza di Dante nei Canti orfici è da considerarsi di importanza fondamentale alla comprensione della struttura e del sottofondo mitico-religioso del libro
Come sempre la poesia di Dante risulta dalla lotta tra il nordico e il latino Ed è ancora Dante lo scrittore che personifica l’arte crepuscolare per eccellenza:

L’arte crepuscolare (era già l’ora che volge il desio) in cui tutto si affaccia e si confonde, e questo stadio prolungato nel giorno aiutato dal vin de la paresse che cola dai cicli meridionali e nella gran luce tutto è evanescente e tutto naufraga, sì che noi nel più semplice suono, nella più semplice armonia possiamo udire le risonanze del tutto. II riferimento a Dante è ripetuto in un altro brano dei Taccuini sull’arte crepuscolare: … in queste sere in cui è profondamente dolce la voce dell’organetto, la canzone di nostalgia del marinaio, dopo che il giorno del sud ci ha riempito du vin de la paresse. Il marinaio è, naturalmente, quello dell’ottavo canto del Purgatorio (“era già l’ora che volge il disio”), mentre l’organetto è senz’altro un riferimento alla “dolce armonia da organo” (Par. XVII, 43).

La Vita Nuova specialmente,
Nel senso che i Canti orfici, come la Vita Nuova, sono un diario spirituale, un libro della memoria letto in retrospettiva alla ricerca di un significato simbolico, una disciplina e una iniziazione alla vera via della salvezza, l’analogia tra i due libri e apparente. Nei Canti orfici è evidente lo sforzo di reinterpretare e riordinare esperienze ed episodi sconnessi attraverso la memoria, che diventa così, come in Dante, rivelazione e strumento di rigenerazione spirituale. Ma se Beatrice conduce Dante al Paradiso ed alla Trinità nella Divina Commedia, in Campana Euridice s’identifica con la Chimera, l’Amore ambiguo, che conduce il poeta sia in alto sia in basso. La differenza essenziale tra il viaggio di Dante e quello di Campana è che il primo si muove dalle tenebre verso una luminosità sempre maggiore, mentre Campana si muove attraverso le tenebre, penetrate di quando in quando da bagliori che però non riescono ad abolirle. Mentre la poesia di Dante segue un movimento verticale. quella di Campana segue un movimento ciclico.
Persino l’alternanza di prosa e versi negli Orfici potrebbe far pensare alla Vita Nuova per quando diversi i risultati. Dante nella prosa controlla, unisce e commenta i componimenti in versi, con chiarezza critica ed intellettuale. In Campana la prosa non è separabile dalla poesia, e non ha quindi la spiccata funzione strutturale della prosa della Vita Nuova. Ma se i Canti orfici si considerano nel loro insieme, si nota che i componimenti in versi spesso forniscono un’intensificazione e risonanza del materiale presentato in modo piu’ esteso nella prosa. Questo è vero per i Notturni rispetto alla prosa della Notte e per “Immagini del viaggio e della montagna” e “Viaggio a Montevideo” rispetto alla prosa della Verna.
I parallelismi strutturali e tematici tra l’entrata di Dante nella città di Dite e l’entrata di Campana in Faenza sono notevoli. La torre, sia in Campana sia in Dante, è il punto focale del loro graduale avvicinarsi alla città.
Ecco l’inizio della Notte:
Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto
torrido…
E Dante: (Inf. VIII, 67- 74)
II Canto V dell’Inferno aveva per Campana un fascino particolare. Un altro riferimento diretto lo troviamo negli Inediti:
E’ il carillon d’una torre gotica. Dante nel V canto ebbe
questa fantasia cavalleresca che trionfa dell’inferno latino. (“E’ il carillon”).

E nella descrizione della pianura di Romagna, in cui si sente l’eco del Canto XIV del Purgatorio. dove Dante ricorda con nostalgia l’antica Romagna e “le donne e i cavalier, li affanni e li agi, /
che ne ‘nvogliava amore e cortesia, riappare la figura di Francesca:
Occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive della guerreggiata pianura…

Ritorno
Presso Campigno 26 settembre
Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna….dove si perde il grido di Francesca…, guerriera, amante, mistica, benigna di nobiltà umana, antica Romagna

Torna la visione disgregante di Campana sottolineata da Luigi Bonaffini che consente di affermare che i Canti Orfici sono un canto di un Myself del poeta che cerca e perde la propria Euridice e finisce, come Orfeo, lacerato e diviso.

Iscriz. nel rg. del Tribunale di Firenze il 3/06/2010 n. 5780, Direttore Responsabile RAFFAELLA RIDOLFI