25 Aprile, il 76° anniversario della Liberazione nel secondo anno della guerra alla Pandemia Covid 19.

thgiovedì 22 aprile

 

In questo clima di dopoguerra con limitazioni e coprifuoco che la Pandemia ci impone la celebrazione del 76° anniversario della Liberazione assume un significato particolarissimo. Io intendo  celebrarlo suggerendovi la lettura del mio libro  “Domenico Vanni-Sovversivo per la libertà” che racconta la figura di un grande e autentico combattente antifascista marradese.

 

Domenico Vanni classe 1889 scalpellino, pioniere del socialismo nella Romagna Toscana, consigliere provinciale di Firenze nel 1920, antifascista, partigiano, deportato a Mathausen, vicesindaco di Marradi nel 1946, socialdemocratico, imprenditore a Parigi, amico di Nenni e di Saragat. Un saggio, come hanno scritto nelle recensioni,  che riscrive una parte importante della storia politica ed amministrativa nei territori tosco-romagnoli  fra le due guerre e si spinge fino agli anni novanta. Pagine, arricchite da immagini, si animano delle testimonianze, spesso sussurrate all’orecchio, dei terribili accadimenti del passaggio del fronte, dei lutti e degli atti di eroismo e degli omicidi della guerra civile in un’area che fu teatro di acerrimi scontri fra alleati e nazifascisti. Ridolfi ricostruisce in maniera organica la presenza delle formazioni partigiane nell’appenino, ricorda i martiri e fra questi Bruno Neri, riporta l’articolo di Marino Pascoli sulla Voce del 1947 a proposito dei falsi partigiani e rende onore a tutte le vittime. Nella prefazione si legge: “Nel libro c’è la leggerezza incosciente di un Paese che spianò la strada al regime e ne subì passivo le violenze e gli errori. Ci sono quei ragazzi italiani che attraversarono il fascismo come una malattia lunga e dolorosa ma mai mortale, perché la loro fede nella libertà era più forte e un giorno avrebbe vinto. Poi c’è la guerra civile, le atrocità, la ricostruzione vista non in astratto ma nella vita quotidiana dei nostri borghi, distrutti dalle bombe eppure vitalissimi, quasi euforici, ubriachi di democrazia. E c’è il dopoguerra, la ripresa, la crescita, il cambiamento politico e sociale. Ma nel libro c’è anche altro, qualcosa che scotta e coinvolge subito il lettore: una ricerca di verità che costringe a infrangere molti miti, molta di quella retorica sulla Resistenza che per decenni ha inchiodato l’Italia ad una finzione. Da un lato c’era il Male del fascismo oppressore, dall’altro il Bene assoluto della Liberazione. La Liberazione fu una grande prova di orgoglio e di riscatto nazionale. Ma fu anche la vicenda di un popolo che – magari proprio nella Toscana della vivacissima Marradi o nella Romagna, regioni prima così nere poi d’incanto così rosse – cambiò bandiera per puro opportunismo. Fu, soprattutto, la durissima e sorda lotta fra i liberatori, che proseguì quella combattuta nei tempi dell’esilio e dell’antifascismo letterario ed epistolare. Se negli anni venti e trenta Matteotti, Turati, Gobetti e Rosselli erano fra i principali nemici di Gramsci e di Togliatti, un attimo dopo aver sconfitto il nazifascismo quel conflitto si ripropose con forza, seppur celato dal trionfalismo di un Paese in festa e dalla geopolitica che voleva l’Italia in ogni caso “occidentale” e “americana”. Ben poco emerse, quindi, di un duello cruento che si svolse senza nessuna ribalta, come sepolto e dimenticato. Ben poco restò, nella memoria collettiva, di quel sangue che – per avvicinarci alla formula usata da Pansa, “Il sangue dei vinti” – fu il sangue innocente dei “vincitori”: i socialisti riformisti in primis, ma anche i liberali e i cattolici, che avevano vinto anch’essi la guerra alla dittatura ma furono presto schiacciati dall’organizzazione militare comunista. Una cultura totalitaria non dissimile da quella appena sconfitta, anzi certamente più feroce e determinata. “Mio nonno fu tanto antifascista quanto anticomunista”, dice Rodolfo Ridolfi di Domenico Vanni, e si coglie nelle sue parole un orgoglio trattenuto troppo a lungo, perché nell’antifascismo di maniera i due totalitarismi erano visti come sideralmente distanti. Invece, a creare questa separazione fu solo la tracotanza dei più potenti fra i vincitori che, come sempre accade, riscrivevano la Storia a loro piacimento. La vita di Domenico Vanni, che per l’autore è il punto di incontro di “ricordi, convinzioni ed emozioni”, va quindi oltre la biografia e diventa l’occasione di riscoprire ciò che siamo stati davvero.

L’Italia democratica è figlia del 18 aprile 1948, non dimentichiamolo!

una sezione elettoraledomenica 18 aprile

Se il 25 aprile del 1945 segnò la fine del nazifascismo per l’opera determinante delle truppe anglo-americane e dei resistenti, il 18 aprile del 19ettantatre anni48 fu la data in cui, con il voto, l’Italia decise per la democrazia e la libertà, sconfiggendo il pericolo frontista. perché quel giorno fu il popolo vero, fu l’Italia profonda, dal nord al sud, che seppe difendere, unita, un patrimonio comune di valori ereditato nei secoli; perché quel giorno il nostro popolo seppe dire “no” ad una ideologia che, se avesse vinto, avrebbe portato in Italia il terrore rosso che già aleggiava sui Paesi dell’est europeo, consegnati a Stalin dagli accordi di Yalta; perché, infine, il 18 aprile non vinse, come invece troppo comunemente si crede, il partito che ci avrebbe portati verso il cattocomunismo e la partitocrazia. Il 18 aprile fu giustamente definito una seconda Lepanto, in quanto se Lepanto ha impedito ai musulmani di invadere l’Europa, il 18 aprile ha impedito ai comunisti di conquistare l’Italia.

Come non sottolineare l’intelligenza politica, la lungimiranza ed il coraggio di Saragat, il quale si staccò da un partito socialista, ormai succube del Pci, per dar vita ad un socialismo liberale e democratico. Settantatre anni sono trascorsi da quando, alle prime elezioni dell’Italia repubblicana, i partiti del centro-destra moderato ottenevano il 48,5% dei suffragi, battendo di oltre diciassette punti la lista di Unità Popolare, formata da Pci e Psi. Il significato della vittoria del 18 aprile va sicuramente al di là del pur considerevole risultato ottenuto dalla Dc, e supera di gran lunga la sigla stessa, sotto la quale tutti quei consensi vennero raccolti. Il 18 aprile vinsero i Comitati Civici, creati pochi mesi prima, che, forti di trecentomila volontari e di ventimila comitati elettorali, intrapresero una politica anticomunista e organizzarono una campagna elettorale nella quale risultò evidente, attraverso slogans e manifesti, che la posta in gioco era la salvezza del Paese dal comunismo. Vinse uno spirito di “crociata” in difesa della civiltà, un anno prima della scomunica lanciata da Pio XII, il 28 giugno del 1949, nei riguardi dei cristiani che aderivano alle dottrine del comunismo e che collaboravano con movimenti comunisti, e undici anni dopo l’enciclica Divini Redemptoris di Pio XI che aveva definito il comunismo “intrinsecamente perverso”.

Certamente, una delle cause della sconfitta del Fronte popolare è da ravvisare nella levatura politica e morale di uomini come De Gasperi, Saragat, Einaudi. Fu così che i moderati contribuirono a salvare la democrazia e la civiltà del nostro Paese; mentre presuntuosi intellettuali di sinistra, ciechi di fronte ai crimini di stampo leninista-stalinista, iniziavano la loro triste marcia dentro il comunismo. Un’analisi di più di mezzo secolo di storia italiana potrà contribuire a far luce sul significato politico e culturale di una data troppo importante per essere dimenticata, forse, un pò troppo scomoda, dopo che gli sconfitti di ieri vorrebbero diventare i vincitori di oggi. Le istituzioni dovrebbero ricordare con gratitudine i protagonisti di quell’evento: Alcide De Gasperi, Giuseppe Saragat, Luigi Einaudi, Randolfo Pacciardi, che affermarono i valori della democrazia, della libertà, dell’atlantismo, e dell’Occidente, valori che sono ancora attuali ed irrinunciabili. nonostante vengano violentemente messi in discussione in molte parti del mondo e nello stesso cuore d’Europa. Quella del 18 aprile 1948 non fu una delle consuete competizioni elettorali tra differenti forze politiche, ma una scelta di civiltà fra due opposte concezioni del mondo: fra un’Italia profondamente legata alle proprie radici nazionali, religiose e civili, ed una parte del Paese plagiata dall’utopia marxista-leninista; un’utopia che proprio nella primavera dello stesso anno portava con un golpe i comunisti al potere a Praga e forniva l’ennesimo saggio di brutalità nell’Europa dell’est con la defenestrazione del socialista Masarik. Il clima da guerra civile di quegli anni, le aspettative dei comunisti italiani nei confronti dei partigiani comunisti jugoslavi di Tito, che avanzavano nell’Italia orientale, e l’eliminazione sommaria da parte comunista dei partigiani non comunisti e di tanti innocenti subirono il 18 aprile del 1948 un duro colpo.

 

Rodolfo Ridolfi

Marradi piange “il dottor Gabri” campione rigoroso ed intelligente di altruismo e solidarietà

foto x programmagiovedì 8 aprile

Uomo dolce e rigoroso, intelligente, di grande valore mai ostentato, di una fede straordinaria e di un senso della solidarietà autentica che ormai è merce rara.

Gabriele Miniati, “il dottor Gabri”,  era nato a Marradi il 24 marzo 1938 dove si è spento l’8 di aprile lasciando un vuoto incolmabile non solo nella sua bella famiglia ma anche fra i tantissimi marradesi che lo hanno conosciuto ed amato.

Medico di famiglia per un lustro, sposato con Mirna da cinquantacinque anni, ha segnato la storia della solidarietà e del volontariato come fondatore e Presidente della Comes agli albori del Pronto Intervento organizzato insieme alla Misericordia.

Assessore alla Sanità e Membro dell’esecutivo della Società della Salute dal 2008 al 2013 considerava l’impegno politico e amministrativo  come una continuazione della linea che da sempre aveva contraddistinto la sua vita: “la vicinanza e la partecipazione ai bisogni della collettività” e amava citare Don Milani: ”..la politica intesa come servizio è il luogo privilegiato per essere vicini ai bisogni dell’uomo e trovare le adeguate risposte”. Un cammino quello di Gabriele Miniati basato sulla “Cultura al Servizio della Persona” illuminato dai più profondi valori cristiani.

Rodolfo Ridolfi