L’anno dei canti Orfici di Dino Campana

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In un articolo Bino Binazzi, il 25 dicembre 1914, apparso ne “Il Giornale del Mattino”, Bologna, a pag 3 definiva Dino Campana,”un poeta romagnolo”. Oggi indubbiamente l’affermazione, dell’autore della prefazione all’edizione dei Canti Orfici (Vallecchi1928), appare riduttiva, tuttavia interpreta il grande amore del poeta di Marradi per la Romagna: “Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna….dove si perde il grido di Francesca…, guerriera, amante, mistica, benigna di nobiltà umana, antica Romagna”. In occasione del 100° anniversario dei Canti Orfici (Marradi Tipografia Ravagli 1914)

Mi permetto di suggerire come sarebbe significativo che il centenario venisse immortalato con la collocazione a Marradi dell’opera in ceramica faentina D’inno Campana di Luigi Ontani frutto del sodalizio con la Bottega Gatti di Faenza opera esposta al Palazzo delle Esposizioni a Faenza nel 1997. In questo straordinario anno campaniano mi piace ricordare anche come il Centro Studi Campaniani, abbia realizzato nel 1994 (ottantesimo anniversario) la ristampa anastatica dei Canti Orfici. Nello stesso numero di copie (mille) che l’otto giugno del 1914, il filosofo Luigi Bandini commissionò al tipografo marradese Bruno Ravagli per il mese successivo versando una caparra di £ 110. Con quella ristampa, ricordammo come nella vicenda umana e poetica di Dino Campana il rapporto con la sua terra natale non fu soltanto un rapporto difficile e spesso di emarginazione, ma anche un rapporto di grande amore, segnato da alcune amicizie sincere, come furono quelle con Luigi Bandini e Anacleto Francini. L’edizione del 1914 dei Canti Orfici rappresenta anche una testimonianza storica di questo indelebile legame fra Campana e la Romagna Toscana che nessuna leggenda o artata deformazione potrà cancellare dagli animi e dalle menti più sensibili ed intelligenti.

Nel 90° anniversario, il 20 agosto 2004, sulla base del ritrovamento delle bozze di stampa dei Canti Orfici realizzammo il progetto che cullavamo da tempo di un’edizione dei Canti che riproponesse la lezione originale, integrata da quelle poche correzioni autografe di Campana, contenute nelle bozze di stampa, ma ignorate dal tipografo Ravagli.

Dino Campana disse a Paolo Toschi mostrandogli la bozza dei Canti Orfici: Voglio che lo legga anche Lei, il mio volume; non posso regalargliene una copia, ma Le darò le bozze, tanto fra i poeti non si fanno complimenti. E Toschi aggiunse oggi sfoglio quelle bozze segnate di correzioni a lapis copiativo o a penna, grosse come se fossero scritte con un fiammifero.

 

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Con quel lavoro insistemmo, sui tratti distintivi della poesia campaniana, che maggiormente resistono al tempo. Una poesia quella di Campana che si snoda lungo i sentieri, le strade ed i mari della partenza e del ritorno, dove il dottore, il farmacista, il prete, l’ufficiale della posta il maestro tutti quegli idioti di Marradi compongono l’affresco della Tragedie. Il tempo ha sgretolato la saldezza del contesto, allontanato la leggenda e ha lasciato comparire lo splendore essenziale. Da un paese che suona come una maledizione, secondo l’immaginario popolare, esce un poeta solitario, che nella natura matrigna trova il rifugio contro gli ottusi rifiuti. Questo rifugio è: la notte con porte aperte sull’infinito.

Per quanto contrari agli eccessi non possiamo negare come la vicenda umana di Dino Campana sia costellata da una pedanteria didattico-retorica che la famiglia, i benpensanti della provincia hanno determinato, costringendolo alle numerose partenze per rifugiarsi nelle montagne o altrove e immancabili e irosi rientri.

 

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Ma alla fine i Canti Orfici sono pieni di versi meravigliosi, ed hanno per tutti noi, che ci siamo avvicinati al mistero campaniano e alla purezza della sua lirica con la presunzione che solo chi vive i luoghi ed i percorsi di questo lembo di terra fra Romagna e Toscana può conoscerlo meglio, il sapore del ricordo affettivo più caro. Il poeta chiude i suoi Canti Orfici con il colophon tratto da Foglie d’erba di Walt Whitman erano tutti stracciati e coperti col sangue del fanciullo. Il poeta, l’uomo, vuole significare una purezza perduta appunto che determina la tragedia di chi sa bene che solo la Poesia ci può salvare, ma la poesia si è persa, è stata contaminata e va ricercata e ripristinata assolutamente.

C’è più mondo in Dino Campana che nei racconti di cento esploratori. C’è più conoscenza e vera cultura nel Marradese, che nelle ripetitive e noiose dissertazioni di cento baroni del sapere, c’è più genialità e futuro nel nostra Poeta  che in mille complicatissimi congegni scientifici è per questo che non ci stanchiamo di leggerlo è per questo che lo sentiamo vivo e vicino.

 

Rodolfo Ridolfi